sabato 24 dicembre 2011

Finisce il 2011.

È un po' che non mi viene di scrivere. Come tutte le volte che mi capita, mi metto a leggere. Da quando poi ho scoperto il mio personale cimitero dei libri dimenticati quasi non compro più libri. Me li vado a cercare laggiù, in una penombra che profuma di muffa di carta da scaffale e vecchi tubi per riscaldare il silenzio. Tempi di crisi. È un posto così cristallizzato dall'inerzia, e dalla malattia da cui a stento sono uscito, che i suoi dettagli hanno attraversato anni e anni di esistenze, balzando integri dall'altroieri all'oggi. Ti volti, ti abbassi per caso davanti a un misterioso sacchetto di plastica bianca e lo apri. Un vecchio impolverato CD Player della Sony, il "Discman". Una confezione in plastica trasparente di tempere con il tuo cognome, e il nome che invece non è il tuo, ma di un ragazzino che all'epoca aveva sei o sette anni. Un freddo biglietto d'auguri di una donna importante per la tua vita a un uomo importante per la tua vita. Cristo, da dove vengo. La lettera di un ragazzo, ex-agente di compagnia assicurativa, a quell'uomo, scritta nella piazza centrale di Duisburg, in una pausa fra un colloquio di lavoro e un altro, nel millenovecentonovantanove. Svela che le vie dell'affetto e dell'amicizia sono infinite e impreviste, e inizi a sentirti piccolo, quasi incapace. Fotografie. Della prima metà del novecento. Volti ignoti, eppure sfiorati dal sospetto che nascendo ti sei appropriato di qualcosa che era anche loro. Sarebbe troppo chiamarla gratitudine, troppo poco simpatia. Un vecchio passaporto della Repubblica. Erano verdi, una volta, con le lettere oro. Biglietti da visita in inglese: American Academy in Rome, Utility Woodworks in Malta. Ti dicono con indifferenza, quasi con eleganza, tutta britannica, che è solo per un caso (da rimpiangere? Ma no) che parli italiano con accento romanesco e non inglese della periferia di qualche città di chissaddove. Sarà in virtù quindi di quello stesso caso che spuntano persino una lettera del Fascio Femminile di Ripi, provincia di Frosinone, dove la (fu) camerata tua nonna viene ringraziata della generosità (duecento lire) di cui hai avuto solo un assaggio quando truccavi le partite a poker sul davanzale della casa al mare; e poi una misteriosa missiva che quasi ti vergogni a leggere, tanto trasuda tristezza: una donna anziana (è sempre nonna?) scrive a un uomo misterioso (è nonno?) la sua sconfortante solitudine. E ti tornano in mente delle grida di tanto tempo prima. Ma la calligrafia di una volta era così bella che non si riesce più a leggerla. Forse ci riesci, a piangere. Sarebbe ora. Foto, cartoline, a colori, in bianco e nero. Francobolli della Repubblica, francobolli del Regno. Una carta d’identità spezzettata, con il tuo nome e cognome e la data del millenovecentoquarantaquattro. Vaglia su carta marcia. Una lettera di un amico fraterno all’uomo importante per la tua (e la sua?) vita, nel periodo in cui questi stava male sul serio. Il testo è manierato, e non sai se è questione di freddezza o costume stilistico dell’epoca. Ma qual è poi la differenza? Ma c’è del vero, c'è del buono. Il mittente me lo ricordo, stava sempre afflosciato in una poltrona, con lo sguardo placido, staccato, oggi non saprei dire più se in senso buono o nel peggiore possibile, al centro di una casa la cui sporcizia era superata solo dalle manie di pulizia materne. Un’amicizia fra famiglie inspiegabile. Spuntano, infine, ingiallite e stilografiche ricette mediche. All’inizio, lo confesso, penso che siano elenchi di antidepressivi. Ma sono cattivo, e pieno di pregiudizi. Sono, invece, i miei farmaci per l’asma. Tutte le visite, tutte le prescrizioni. Le prove allergiche, le ricette, i consigli medici. Avevo cinque anni. È per me che li tenevi nascosti. Perché, superstizioso come sei sempre stato, ossessionato dall’idea della sfortuna, pensavi di proteggermi. Mi ritrovo soltanto adesso la capacità di distinguere il grano dal miglio. Magari era poco, ma c’era anche del grano nel sacco. E sarà quello, che mi porterò dietro. Sempre.
Non ci ho pensato mica due volte. Ho rimesso tutto nel sacchetto di plastica bianca e me lo sono rubato via.
È un po' che non mi viene di scrivere.

venerdì 16 dicembre 2011

Notte.

Gli occhi stanchi di sé
e i sorrisi di circostanza
li ho portati in cantina
stanotte
la voce secca del noncisono
l'ho bagnata con uno scroscio d'acqua calda
stanotte
il silenzio della risata vuota
l'ho soffiato via col grido
stanotte
il farfuglio del sorriso idiota
l'ho spazzato via con l'intelligenza d'Altri
stanotte.

Chissà che gran risveglio
domani.


giovedì 27 ottobre 2011

Lacrime.

In questa strada ci ho mangiato la focaccia, ci ho camminato in dolce compagnia, ci ho lasciato il cuore.



Per chi vuole, qui c'è un IBAN per contribuire. Io l'ho appena fatto.

lunedì 12 settembre 2011

ELECTROWORKS!

Poco più di un anno fa con Dario Tatoli, Sound Designer, realizzammo questi esperimenti musicali che trovo geniali, grazie al suo talento.
Io feci del mio meglio per esprimere la voce adatta al "mestiere" di turno... questi sono i primi due file del progetto ELECTROWORKS.


ELECTROWORKS 1 - L"orologiaio (mp3)

ELECTROWORKS 2 - Il rigattiere (mp3)

venerdì 9 settembre 2011

No title (needed).

D'alba osan le brame.

lunedì 5 settembre 2011

Settembre.

L'ascolti strapparsi al cielo.
Crepita e viene giù.
Picchia forte fuori, accarezza dentro, lava via l'estate.
Ticchetta, scalpiccia e acqueggia sul davanzale della vita. Mormora frasi indistinte, suggerisce timidi battiti d'ali.
Fa venir voglia di riprendere il volo.
Di più.
Costringe.


sabato 3 settembre 2011

Tu risa.

Tu risa (P. Neruda) (mp3)

Il tuo sorriso.

Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l’aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.
Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l’acqua che d’improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d’argento che ti nasce.
Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d’aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.
Amor mio, nell’ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d’improvviso
vedi che il mio sangue macchia
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.
Vicino al mare, d’autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.
Riditela della notte,
del giorno, della luna,
riditela delle strade
contorte dell’isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l’aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.

Tu risa.

Quítame el pan, si quieres,
quítame el aire, pero
no me quites tu risa.

No me quites la rosa,
la lanza que desgranas,
el agua que de pronto
estalla en tu alegría,
la repentina ola
de plata que te nace.

Mi lucha es dura y vuelvo
con los ojos cansados
a veces de haber visto
la tierra que no cambia,
pero al entrar tu risa
sube al cielo buscándome
y abre para mí todas
las puertas de la vida.

Amor mío, en la hora
más oscura desgrana
tu risa, y si de pronto
ves que mi sangre mancha
las piedras de la calle,
ríe, por que tu risa
será para mis manos
como una espada fresca.

Junto al mar en otoño,
tu risa debe alzar
su cascada de espuma,
y en primavera, amor,
quiero tu risa como
la flor que yo esperaba,
la flor azul, la rosa
de mi patria sonora.

Ríete de la noche,
del día, de la luna,
ríete de las calles
torcidas de la isla,
ríete de este torpe
muchacho que te quiere,
pero cuando yo abro
los ojos y los cierro,
cuando mis pasos van,
cuando vuelven mis pasos,
niégame el pan, el aire,
la luz, la primavera,
pero tu risa nunca
por que me moriría.
 
Pablo Neruda

lunedì 29 agosto 2011

MI fai tremare i polsi.

Complice la solitudine della Roma delle notti d'agosto, ho voluto leggere un altro post de La Mangrovia, ovvero l'inesauribile Giulia. Non è la prima volta (che è questa), e non sarà di certo l'ultima.

Mi fai tremare i polsi (mp3)


giovedì 25 agosto 2011

Ciao amico mio...

Oggi ho saputo che se n'è andata una persona a cui devo moltissimo. Tutta una parte di vita, con tutti gli annessi, e i connessi.
Da quella parte di vita scaturirono un'infinità di cose belle. Un giorno gli dissi che professionalmente (che brutta parola) per me era stato un padre. Oggi so che non fu solo cosa professionale.
Ci vedevi, ci vedevi bene.
E te ne sei andato combattendo con la forza e la gioia di cui eri capace.
Che sia maledetto il Tempo. Che sia maledetto una dannata, fottuta, maledetta volta di più.
Ciao, Marcello. 

domenica 21 agosto 2011

La Zena del Sud.

Una scivolata mentre si cammina in fretta, traditi da un sasso levigato dal tempo dell'acqua con la complicità di una leggerezza intempestiva. E le comunicazioni si interrompono nostro malgrado. La giornata inizia così.
Trova così la sua ufficialità il benvenuto isolamento nell'enclave ligure di Sardegna.
In marcia, verso il Forte.
Forse.


lunedì 15 agosto 2011

Sole.

Dismessa la veste del caso, il turista si aggira con ruote alate e inaspettatamente gioiose su una sabbia gialla e pulita. Forse ci vuole dimostrare che i sogni dicono la verità, o forse è solo questione di casualità, appunto. O forse ancora, è l'ennesima chimera.
Sedotto dal suono di un passato che torna travestito da acciughe, faide e palloni si ferma a contemplare il tramonto sull'eterna amante che una miriade di volti felici osserva con un'estasi appena inferiore alla sua.
Poi, in un rigurgito d'orgoglio, dà cinicamente le spalle al grande disco rosso e si sente lontano. Ebbene, nel farlo, si chiede dov'è arrivato realmente. E perché. Infine, e non ve n'è certezza, accetta di convivere con quella domanda senza avvertire l'urgenza di darle risposta.
L'augurio è che essa, imprevista e non richiesta, gli piova addosso con la leggerezza di una goccia d'estate, che sciogliendosi sulla pelle non muore.
Come un sogno. Come un racconto.
Non è questo il solo modo per vivere?


lunedì 8 agosto 2011

Leuca.

Vicoli notturni, umanità e mare senza fine. Peccato esser soli. O forse no.

giovedì 4 agosto 2011

Costanza.

Il turista per caso siede fra drappi imperiali e nostalgie astratte e risibili di un'epoca andata, guardando il lago in subbuglio che gli si agita dentro. L'acqua è nera, l'aria è piovosa e batte un vento che gli porta via l'anima. Accende una sigaretta nottambula davanti a un faro erculeo che sa di insuperabili colonne, e sente il terrore di chi viveva in un'epoca antica. Respira a fondo il suo fumo di lago e si incammina verso l'ennesima notte solitaria.
Si sa, la notte porta consiglio, sebbene dietro a travestimenti da smascherare.
Il turista per caso si desta, e ritrova quel volto che aveva cercato inutilmente dentro di sé per troppe, allarmanti ore. E fa una scoperta di umanità (o così speriamo per lui) che riduce la sua atavica propensione alla creazione di dei a trasparente simulacro della propria debolezza.
Lo seguiamo incamminarsi lungo il molo, dove inizia il binario.
Il cielo si è arreso, e il grigio toglie vita tutt'intorno. Le mani in tasca, aperte, alla ricerca della propria pelle.

mercoledì 3 agosto 2011

Bayern.

Due ragazze inzuppate gli sorridono mentre fanno jogging sulla statale avviandosi lungo il ponte sul fiume avvolto dal temporale, una bimba scruta una paperella sul lago, e il turista per caso, mentre mangia patatine e mezza birra di grano sotto una tettoia colpita dalla pioggia battente, fa fatica a ritrovarsi cose dentro.
Fa un po' freddo.
Ma poi, in genere, passa.

lunedì 1 agosto 2011

In fondo alla notte.

Primoagostoduemilaundici.
Quanto sono limitate le parole per dire di lacrime dolci, di affetto senza pudore, e di occhi senza fine.
Eppure, di parole, vanno scritte nuove pagine. 

sabato 2 luglio 2011

Dialogo immaginario.

-Anche se non sono più innamorato di te, cercherò sempre la tua bocca.- sussurrò, accettando di uscire dalla sua vita.
Lei mostrò un'aria sollevata, e lo guardò allontanarsi. Dentro di sé rideva, sapendo che ora sarebbe stata lei a innamorarsi.

venerdì 1 luglio 2011

Il cacciatore.


Sei anni fa mi fu fatto un regalo che mi avrebbe cambiato la vita.
Sei anni fa iniziai a scrivere.
Tre anni orsono lasciai la mia cara Merck.
Tre anni fa scrissi un romanzo, e lo gettai via.
Due anni orsono presi a scrivere un altro romanzo.
Mi piacque.
Oggi, mezz'ora fa, ho firmato il contratto con un ottimo editore che lo pubblicherà.
Fra un anno, e con un titolo ancora da inventare.
Tenacia premiata.
Caccia vittoriosa.
Data memorabile.  
Primoluglioduemilaundici.

lunedì 27 giugno 2011

Frecciargento! Con i complimenti di Alstom (produit français)



Nel momento in cui scrivo, è domenica, sono comodamente seduto in un treno Frecciarossa stranamente partito in orario da Bologna e diretto a Roma, e ho appena acceso l’immancabile Mac. L’accesso al WiFi di Trenitalia, manco a dirlo, non  funziona. Desisto dal tentativo di connessione, poi avverto all’improvviso un’apprensione che sulle prime mi stupisce, e un attimo dopo la constatazione di dove mi trovo diventa un pensiero cosciente. Guardo fuori: siamo nel lungo e quasi ininterrotto traforo ad alta velocità che porta a Firenze. Ecco spiegata la sottile angoscia.
Ma andiamo con ordine.
Sabato 25 giugno (ovvero ieri, al momento in cui sto scrivendo) arrivo alla stazione Termini di Roma con l’intenzione di salire sul TAV delle 12.15 per Bologna. Mi balena la malaugurata idea di prendere invece il treno precedente, delle 11.45, pagando i canonici e discussi otto euro di penalità.
A tal fine, fermo un capotreno e gli chiedo se posso salire.
-Signore, lei può salire e così guadagnare mezz’ora, ma viaggerà in piedi. Il treno è pieno.- mi avvisa con lieve accento partenopeo. Entrambi ignoriamo che ci sono due cose sulle quali il simpatico funzionario è in errore: ci sono ancora dei posti liberi (infatti riesco a sedermi quasi subito), ma non guadagnerò affatto, ahimè, l’agognata mezz’ora. Al contrario, perderò molto, molto tempo.
Appena un’ora e venti dopo la partenza, il fiammante ETR 600 Frecciargento rallenta ed entra trionfalmente a Firenze Santa Maria Novella.
-Quando ripartiamo?- chiedo al capotreno.
-Eeeeh! Siamo in anticipo mostruoso…- risponde orgoglioso inserendo fra la “u” e la “o” la gradevole pausa fonetica partenopea -Alle tredici e trenta!
Sorride.
Accipicchia!- gli faccio eco, prima di scendere, e godere di ben venticinque minuti di sosta per mangiare e persino andare in bagno in stazione.
Alle tredici e trenta in punto il treno lascia la banchina all’ombra del cupolone toscano. L’aria condizionata è talmente forte che indosso una felpa.
Vado al bar. Ordino, pago e bevo un succo di frutta. Nell’istante in cui appoggio la bottiglietta vuota sul bancone, il nostro treno entra nel nuovo traforo AV, ma anziché decollare verso i lidi dell’Alta Velocità, rallenta gradualmente e si ferma. Torno al mio posto. Le luci si spengono. L’aria condizionata scompare. Ora funzionano solo le lampade delle poltrone. Fa subito caldo. Mi tolgo la felpa. Qualcuno sbuffa. C’è chi si ostina a continuare a leggere, chiacchierare, ridere.
Io, invece, presagisco l’imminenza dell’inferno. So che questi treni quaggiù non devono affatto fermarsi. Non ci sono semafori, solo un centinaio di chilometri di binario diritto, ininterrotto, esposto in superficie per tre soli brevi tratti. Non ci sono scambi, non ci sono intersezioni. È una canna di fucile. E le canne di fucile sono libere da ostacoli per le presunte pallottole TAV. Sempre che non s’inceppi qualcosa.
Capto stralci dell’eco di un annuncio dalla carrozza vicina, così rendendomi conto che gli altoparlanti nella mia non funzionano.
-Signore e signori… tecnic… intervento… ripartir… dieci minut…grazie.
-Cosa ga’ dito?- chiede il padovano alla mia sinistra (il treno è teoricamente diretto a Venezia, ma non ci arriverà mai. Non oggi, almeno).
-C’è un guasto e secondo loro ripartiremo fra dieci minuti.- rispondo scettico.
Dopo pochi attimi si spengono anche le luci di cortesia. I dieci minuti annunciati passano. Poi altri dieci. E ancora, altri dieci. La sola luce proviene dall’impianto in galleria. La gente è un cumulo di ombre stanche e rallentate dall’afa. In alcuni inizia a montare l’ansia.
Raggiungo il capotreno nel suo cubicolo informatizzato. Ha perso il suo sorriso smagliante, suda copiosamente ed è al telefono con un superiore. Lo sta pregando di aiutarci. Lo prega, sì, anzi lo scongiura, facendo leva sulla presenza di persone anziane. Poi sbatte la cornetta e rivolgendosi a un assistente impreca:
-Stu’ scem’ si sta a preoccupa’ dei turni miei e vostri di oggi e noi stiamo bloccati qua!
-Ma chi se lo caga!- risponde l’assistente.
So che nella carrozza di testa viaggiano (anzi, viaggiavano) i genitori di un’amica. Vado a cercarli per vedere se hanno bisogno di qualcosa. Quando li trovo, la signora agita un ventaglio, e suo marito cerca di riposare. Ma stanno bene. Ci incontriamo là sotto per la prima volta. Pessime circostanze per fare le presentazioni, ma loro due, anziani e credenti, ringraziano la Madonna per la mia presenza, della quale sopravvalutano utilità e importanza. La mia, non quella della Madonna, che in molti devono aver comunque visto, ieri su quel treno.
Percorrendo il treno buio e bollente per fare ritorno alla mia carrozza, vedo altre donne anziane in crisi di tachicardia, una ragazza claustrofobica in ansia, gente che ha caldo, gente che ha sete, un uomo alto non vedente con il cane che scodinzola in un disimpegno, porte dei bagni spalancate su improponibili pozze biologiche a cielo aperto, personale Trenitalia che in preda a una febbrile quanto infruttuosa agitazione percorre i corridoi aprendo i pannelli elettronici di ogni carrozza, in cui pasticcia con la sola forza della disperazione, nella totale ignoranza dei meccanismi di sblocco.
Sono sul set di un film post-apocalittico.
Per tre o quattro volte il Frecciargento sussulta, sembra che sia in grado di ripartire, sui monitor si legge il riavvio del sistema, ma poi, puntualmente, ogni volta, entro pochi secondi il treno geme e il sistema si accascia su se stesso come un elefante ferito a morte; i monitor tornano neri e il lamento collettivo riesplode.
Al giorno d’oggi i treni si piantano come i PC. È il progresso, darling.
È passata un’ora. Il mio treno originario, quello delle 12.15, ci sfreccia accanto con un discreto ritardo causato dalla nostra presenza sul binario ovest. Stanno usando il binario est a senso unico alternato. I treni passano comunque, e in entrambe le direzioni. Non siamo dunque nemmeno autorizzati a sperare che rappresentiamo un ostacolo da rimuovere. Intuisco, e me lo conferma il capotreno, che siamo perciò diventati l’ultima delle priorità di Trenitalia. Devono salvare il salvabile, e noi passeggeri del Frecciargento delle 11.45 non siamo più salvabili. Che importa se rimaniamo imprigionati per una, due, magari tre ore? Avremo comunque diritto al rimborso integrale della tariffa. 
Un assistente Trenitalia scende e apre manualmente tutte le porte del lato parietale della galleria. Quando arriva a quella della mia carrozza, mi sorride, perché sa che ha fatto la sola cosa giusta da fare. Anche se è proibita. Finalmente entra un po’ d’aria.
Bastano pochi minuti e la gente, esasperata, scende. Fumatori in testa, compreso il sottoscritto. Metà popolazione del treno è ora brulicante sulle mattonelle del camminamento d’emergenza, le quali, osservo, non sono nemmeno incollate: alla faccia della sicurezza, quando ci passi sopra oscillano verso la massicciata. E così, la sgradevole eco di un coro di flip-flop prende a propagarsi in galleria. Si fuma, ci si agita, si cammina su e giù, si fa insomma un po’ di sano salotto in galleria TAV, godendo al passaggio dei convogli che spostano l’aria fresca del tunnel. Vroom!
Flash che scattano. Per una denuncia, mi auguro. Alcuni telefoni funzionano, altri no. Ma la galleria non era coperta dalla rete?
Flip-flop.
E intanto, a bordo, il bar continua a vendere. Anche l’acqua. Nessuno ci dà qualcosa gratis. Nemmeno agli anziani o ai bambini.
Flip-flop. Vroom!
È passata un’ora e un quarto. Il personale continua a non dirci nulla. Come biasimarli? Nemmeno a loro è stato detto nulla. Nei loro occhi leggo la paura del linciaggio, ma gli è andata bene: sebbene a stento, la massa conserva la calma, forse perché la metà dei passeggeri sono stranieri in vacanza. Non a caso sono loro i più tranquilli. Per tedeschi, coreani, americani, questa è un’eccezione, mentre per noi è l’italica norma (N.B. fate pure una ricerca in Google digitando Frecciargento, blocco e galleria).
Estorco al mio amico capotreno l’informazione che una motrice a gasolio arriverà da Firenze e ci trainerà nella stazione periferica di Rifredi, dove un treno Frecciarossa ci attende. Ma affinché percorra i dieci chilometri di tunnel ci vorrà un’altra ora, e poi ancora mezz’ora per agganciare il nostro carro bestiame.
E finalmente, fischio triplo. Come in stazione. Tutti a bordo, stremati. Spengo l’ultima sigaretta del pacchetto sul selciato di una delle gallerie ferroviarie più lunghe d’Europa.
Partiamo a velocità minima, e usciti dalla galleria parte l’applauso liberatorio.
-Applausi? Calci in culo.- bofonchia legittimamente un romano.
Ma non è finita: ancora mezz’ora sotto al sole, porte chiuse, aria assente, per entrare a Rifredi.
Trasbordo, altra mezz’ora di attesa. Poi si riparte per Bologna, Padova e Venezia.
Quando rientriamo nel tunnel tremiamo. Ma questa freccia sfreccia. Con appena tre ore e mezza di ritardo.
Oggi ho davvero fumato troppo. Ma mi perdono.

martedì 17 maggio 2011

Il Mac, il caposcalo e un volo per Roma. Una storia vera.


La mattina del 16 maggio tento inutilmente di effettuare il web check-in nell’immancabilmente malfunzionante sito internet di Alitalia, che così bene rappresenta tanto l’omonima azienda di trasporto aereo di bandiera quanto il paese che ha siffatta bandiera, per il mio volo di rientro da Torino a Roma. Mi rassegno a perdere tempo in aeroporto e programmo con opportuno anticipo il mio arrivo a Caselle. Ivi giunto, prendo atto che lo stesso problema sussiste con il terminale di self check-in e mi preparo ad affrontare il personale in un vis a vis diretto che tendo in genere ad evitare.
Preannuncio al lettore che quanto segue andrà a corroborare ulteriormente la già ben nutrita fondatezza di questa mia tendenza.
-Buongiorno. Non riesco a effettuare il check-in per Roma presso il terminale automatico. Mi chiamo Troccoli e ho il volo delle 17.15 per Roma.
-Buongiorno.- (faccia stanca, di chi sta lì per puro caso) -Mi dà un documento, prego?
-Ecco a lei.
Tac tac tac.
-Ma lei ha volato l’andata da Roma?
Tac tac tac.
-Certo. Se sono qui…
-Potrebbe essere venuto in altro modo.
Tac tac tac.
-Mi scusi, qual è il problema?
Tac tac tac.
-Il problema è che nel sistema non risulta che lei abbia volato l’andata.
-E allora?
-E allora non posso emettere la carta d’imbarco per il ritorno.
-Guardi, ho volato l’andata il 13 maggio alle 13.25 da Roma a Torino. La prego, controlli.
Tac tac tac.
-Non avrebbe la carta d’imbarco per l’andata?
-L’ho gettata via, ovviamente.
-Aspetti. (espressione sempre più stanca e annoiata, solleva la cornetta telefonica come se pesasse un quintale)
-Pronto? Ciao, ho qui un passeggero dell’AZ per Roma delle cinque e dieci che non riesco a imbarcare (…) eh, mi dice di no, che non l’ha volato (…) no lui sostiene che ha volato l’andata (…) no, non l’ha, l’ha buttata (espressione di incomprensibile biasimo al mio indirizzo).
-Lei proprio non l’ha la carta d’imbarco, eh?
-Le ho detto che l’ho gettata via. Perché avrei dovuto tenerla?
-L’ha buttata (di nuovo al telefono), te l’ho detto (….) sì, va bene.
-Senta, lei deve dimostrare di aver volato l’andata…
-Ero al posto 6F di un Airbus A321, poltrone grigie con slide per carta di credito atrofizzati sugli schienali, assenza dei vani centrali per l’uscita d’emergenza. Probabilmente un modello di quelli che avete comprato da AirOne e ripitturato solo all'esterno. Le basta?
-Pronto? Dice che era al 6F di un trevventuno (…) eh, lo so.
-Magari ha la carta d’imbarco nel PC?
-E se non avessi il PC? Assurdo.- replico. -Alitalia… sempre peggio, eh? Spero di averla conservata sul desktop prima di stamparla.
Mi chino, estraggo il Mac, che per fortuna ho portato con me, avvio il sistema e visualizzo il pdf della carta d’imbarco, che sempre per fortuna ho conservato in una cartella apposita.
Il Mac troneggia sul desk del check-in in una situazione paradossale e grottesca. L’addetta guarda allibita, come se solo allora capisse che a mentire non sono io.
-Pronto? L’ha nel PC, qui davanti a me (…) sì, aspetta…
-Senta, si può collegare e inviarla per e-mail al caposcalo?
Mi monta la rabbia.
-No, non lo farò. Mi dica invece dove trovo il caposcalo. Ci vado personalmente.- digrigno.
-Vede la macchina bianca? (un modello di auto in esposizione promozionale). Prenda la scala là dietro e salga su, terza porta a sinistra.
Trovo la porta, che era la seconda a destra, con un po’ di difficoltà. Irrompo nello stanzino in cui siede un uomo alto, brizzolato e con cute imbrunita da settimane di lampade. Mi viene spontaneo il pensiero che quelle lampade devono aver rappresentato la sua sola preoccupazione degli ultimi tempi. Il Mac aperto fra mano e la spalla, due borse nell’altra mano, un golfino alla vita e la giacca sull'altra spalla. Sono sudato, a Torino fa molto caldo. E sono anche piuttosto incazzato.
-Questa cosa è assurda.
Il caposcala mi guarda come se non sapesse di cosa parlo. In effetti non lo sa.
-Allora? Sono quello che deve dimostrare di aver volato l’andata facendovi vedere la carta d’imbarco nel portatile!
-Ehm, penso che siano gli operativi a seguire la cosa. Venga.
Si alza.
-Guardi, lei è il caposcalo?
-Sì…
-Ecco, allora andiamo dagli operativi, ma questa situazione è folle, se ne rende conto?
Andiamo alla porta successiva, dove conto sei o sette, fra donne e uomini impiegati in quella che suppongo sia la loro occupazione preferita: chiacchierano allegramente.
Una donna giovane si alza e mi viene incontro. La presenza del caposcalo in persona l’ha intimidita e forse sa di aver combinato un bel casino.
-Il signor Troccoli? Sì, è tutto a posto! -sfodera un sorriso che da bambino chiamavamo “Mentadent”. il dentifricio con i coloranti fasulli.
-Tutto a posto? - la mia voce rasenta il livello del grido. -Tutto a posto? IO devo dimostrare a VOI che ho volato l’andata?
Il caposcalo è a questo punto incuriosito (ma non troppo sorpreso) e rivolgendosi alla sottoposta domanda: -Ma cosa è successo?
-Ecco, non risulta che il signor Troccoli abbia volato l’andata da Roma, per cui avevamo difficoltà a emettere la carta d’imbarco per il ritorno. Gliel'ho chiesta per posta elettronica per avere un giustificativo per l'emissione.
E rivolgendosi verso di me continua: -Ma vada pure, la sua carta d’imbarco è stata comunque già emessa. (sorriso ebefrenico da marketing di quarta generazione, falso come una banconota da tre euro).
-No. La mia carta d’imbarco VERRÀ emessa solo dopo che lei avrà autorizzato l’emissione. Così hanno detto sotto. Il che è semplicemente folle. Voi avete un database e tutto il resto, e un passeggero dovrebbe preoccuparsi di conservare la documentazione del volo precedente. La vostra compagnia è sempre stata e rimane un fallimento cronico. Meno male che sono arrivato in aeroporto in anticipo.
-Avrei comunque risolto il suo problema. Vada pure, la sua carta è pronta giù. Arrivederci.
-Spero di no.- è la mia ultima sentenza al suo indirizzo, che si perde mentre già mi allontano nel corridoio di un ufficio dove c’è tanta gente che fa finta di lavorare, e per una compagnia che è stata salvata, come al solito, con i soldi di noi che lavoriamo.
Quando torno dalla prima impiegata, apprendo che non lavora per Alitalia ma per la società di gestione dell’Aeroporto di Torino.
-Meglio per lei.- le dico.
E meno male che avevano creato la “Good Company”.
ALITALIA = Always Late In Take-off, Always Late In Arrival.
È proprio vero. Sempre in ritardo.
Non solo con i voli.

mercoledì 2 marzo 2011

L'apocalisse che ti fa rinascere.

A volte mi capita di leggere delle cose e cadere preda di una bramosa voglia di impossessarmene. Poi, "per fortuna", a quest'avidità fa seguito un desiderio più sano, e qualche volta, non sempre, i desideri si trasformano, ed evolvono verso la loro stessa realizzazione.
Quando ho letto Verrà l'apocalisse de "La Mangrovia" (aka Giulia Trapuzzano) è così che è stato. E il risultato è in coda a questo post.
Per chi non la conoscesse, La Mangrovia è una giovane (in senso anagrafico) Autrice che scrive cose belle, e questo mio post ha il solo scopo di consigliarne la lettura a chi ancora non l'ha fatto.
Verrà l'apocalisse è a mio parere uno dei suoi pezzi migliori, anche se ce ne sono in effetti molti altri che sprizzano vita da tutti i pori. Giulia, che mi perdonerà l'indiscrezione, mi ha detto che non pensava che lo fosse, ma che dopo aver sentito la mia versione audio ha cambiato idea. È stato in quel momento che ho sentito la terza fase, la realizzazione del mio desiderio.
E allora, mi piglio il mio spazio; e dove, se non qui?
Il suo Blog, su Wordpress, Un giardino di Mangrovie, come un fan una volta le disse, lo dovresti stampare e tenere sul comodino. Aggiunsi allora, e aggiungo adesso, che finora questo è uno dei pochi blog che mi fanno l'effetto che tutti noi curatori di blog vorremmo dal nostro blog.


Listen!

domenica 16 gennaio 2011

Ti amo.

C’è un pezzo di muro sepolto, nascosto fra quintali di cose sciocche e passeggere, e a caratteri piccoli e giganteschi quel pezzo di muro dice solo “ti amo”. È un muro su cui tutti quelli che passano scrivono quel che vogliono, e vanno via, lasciano un’impronta e quasi sempre dimenticano le parole date e ricevute.
Ho fatto fatica a togliere gli occhi da quelle tre parole (due? Troppo grande quell'io? Forse) e dagli occhi immaginari di donna che le pronunciano. Li ho persino cercati, poi mi sono detto basta. Ho sentito l’invidia e la dolcezza farsi la guerra. Poi arrivi tu, a togliermi di dosso il peso di un passato opprimente di cui non sei più parte ma enorme tassello di un amore risolto e sempre vivo. Ancora una volta mi ritrovo prigioniero felice e deluso di epoche che si succedono a strati, che ti trattengono al suolo fra legacci di ferro e instabili ripiani a picco sul mare su cui è dolce scivolare, ondeggiare sbracciando, cercando di agguantare occhi che vogliano stare al gioco, in una nuova caduta che non è fine ma inizio. E mi torna addosso il centesimo piano di un grattacielo d’oriente che è venuto giù con il terremoto misconosciuto dall’altra te.
Li sento sempre, li sento spesso, li sento a volte. In un volto dipinto nella mente, in una frase con una maiuscola al posto giusto, in un silenzio coperto di parole. Quello a cui devo queste stesse frasi senza senso (è incredibile, forse inammissibile, questo lo so, ma chi se ne importa), lo sai? No che non lo sai. Forse lo saprai, un giorno. Forse lo saprete. E così, allora e forse, lo saprò anch’io.
Occhi senza tempo, dove siete? Tu volta l’angolo, dicono. Ma quanti gradi ha questo strano, immenso angolo avvitato su se stesso come un anacronismo irrisolvibile?
E adesso sento che mi vergogno tanto di questa intimità. E forse è giusto così.