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lunedì 27 giugno 2011

Frecciargento! Con i complimenti di Alstom (produit français)



Nel momento in cui scrivo, è domenica, sono comodamente seduto in un treno Frecciarossa stranamente partito in orario da Bologna e diretto a Roma, e ho appena acceso l’immancabile Mac. L’accesso al WiFi di Trenitalia, manco a dirlo, non  funziona. Desisto dal tentativo di connessione, poi avverto all’improvviso un’apprensione che sulle prime mi stupisce, e un attimo dopo la constatazione di dove mi trovo diventa un pensiero cosciente. Guardo fuori: siamo nel lungo e quasi ininterrotto traforo ad alta velocità che porta a Firenze. Ecco spiegata la sottile angoscia.
Ma andiamo con ordine.
Sabato 25 giugno (ovvero ieri, al momento in cui sto scrivendo) arrivo alla stazione Termini di Roma con l’intenzione di salire sul TAV delle 12.15 per Bologna. Mi balena la malaugurata idea di prendere invece il treno precedente, delle 11.45, pagando i canonici e discussi otto euro di penalità.
A tal fine, fermo un capotreno e gli chiedo se posso salire.
-Signore, lei può salire e così guadagnare mezz’ora, ma viaggerà in piedi. Il treno è pieno.- mi avvisa con lieve accento partenopeo. Entrambi ignoriamo che ci sono due cose sulle quali il simpatico funzionario è in errore: ci sono ancora dei posti liberi (infatti riesco a sedermi quasi subito), ma non guadagnerò affatto, ahimè, l’agognata mezz’ora. Al contrario, perderò molto, molto tempo.
Appena un’ora e venti dopo la partenza, il fiammante ETR 600 Frecciargento rallenta ed entra trionfalmente a Firenze Santa Maria Novella.
-Quando ripartiamo?- chiedo al capotreno.
-Eeeeh! Siamo in anticipo mostruoso…- risponde orgoglioso inserendo fra la “u” e la “o” la gradevole pausa fonetica partenopea -Alle tredici e trenta!
Sorride.
Accipicchia!- gli faccio eco, prima di scendere, e godere di ben venticinque minuti di sosta per mangiare e persino andare in bagno in stazione.
Alle tredici e trenta in punto il treno lascia la banchina all’ombra del cupolone toscano. L’aria condizionata è talmente forte che indosso una felpa.
Vado al bar. Ordino, pago e bevo un succo di frutta. Nell’istante in cui appoggio la bottiglietta vuota sul bancone, il nostro treno entra nel nuovo traforo AV, ma anziché decollare verso i lidi dell’Alta Velocità, rallenta gradualmente e si ferma. Torno al mio posto. Le luci si spengono. L’aria condizionata scompare. Ora funzionano solo le lampade delle poltrone. Fa subito caldo. Mi tolgo la felpa. Qualcuno sbuffa. C’è chi si ostina a continuare a leggere, chiacchierare, ridere.
Io, invece, presagisco l’imminenza dell’inferno. So che questi treni quaggiù non devono affatto fermarsi. Non ci sono semafori, solo un centinaio di chilometri di binario diritto, ininterrotto, esposto in superficie per tre soli brevi tratti. Non ci sono scambi, non ci sono intersezioni. È una canna di fucile. E le canne di fucile sono libere da ostacoli per le presunte pallottole TAV. Sempre che non s’inceppi qualcosa.
Capto stralci dell’eco di un annuncio dalla carrozza vicina, così rendendomi conto che gli altoparlanti nella mia non funzionano.
-Signore e signori… tecnic… intervento… ripartir… dieci minut…grazie.
-Cosa ga’ dito?- chiede il padovano alla mia sinistra (il treno è teoricamente diretto a Venezia, ma non ci arriverà mai. Non oggi, almeno).
-C’è un guasto e secondo loro ripartiremo fra dieci minuti.- rispondo scettico.
Dopo pochi attimi si spengono anche le luci di cortesia. I dieci minuti annunciati passano. Poi altri dieci. E ancora, altri dieci. La sola luce proviene dall’impianto in galleria. La gente è un cumulo di ombre stanche e rallentate dall’afa. In alcuni inizia a montare l’ansia.
Raggiungo il capotreno nel suo cubicolo informatizzato. Ha perso il suo sorriso smagliante, suda copiosamente ed è al telefono con un superiore. Lo sta pregando di aiutarci. Lo prega, sì, anzi lo scongiura, facendo leva sulla presenza di persone anziane. Poi sbatte la cornetta e rivolgendosi a un assistente impreca:
-Stu’ scem’ si sta a preoccupa’ dei turni miei e vostri di oggi e noi stiamo bloccati qua!
-Ma chi se lo caga!- risponde l’assistente.
So che nella carrozza di testa viaggiano (anzi, viaggiavano) i genitori di un’amica. Vado a cercarli per vedere se hanno bisogno di qualcosa. Quando li trovo, la signora agita un ventaglio, e suo marito cerca di riposare. Ma stanno bene. Ci incontriamo là sotto per la prima volta. Pessime circostanze per fare le presentazioni, ma loro due, anziani e credenti, ringraziano la Madonna per la mia presenza, della quale sopravvalutano utilità e importanza. La mia, non quella della Madonna, che in molti devono aver comunque visto, ieri su quel treno.
Percorrendo il treno buio e bollente per fare ritorno alla mia carrozza, vedo altre donne anziane in crisi di tachicardia, una ragazza claustrofobica in ansia, gente che ha caldo, gente che ha sete, un uomo alto non vedente con il cane che scodinzola in un disimpegno, porte dei bagni spalancate su improponibili pozze biologiche a cielo aperto, personale Trenitalia che in preda a una febbrile quanto infruttuosa agitazione percorre i corridoi aprendo i pannelli elettronici di ogni carrozza, in cui pasticcia con la sola forza della disperazione, nella totale ignoranza dei meccanismi di sblocco.
Sono sul set di un film post-apocalittico.
Per tre o quattro volte il Frecciargento sussulta, sembra che sia in grado di ripartire, sui monitor si legge il riavvio del sistema, ma poi, puntualmente, ogni volta, entro pochi secondi il treno geme e il sistema si accascia su se stesso come un elefante ferito a morte; i monitor tornano neri e il lamento collettivo riesplode.
Al giorno d’oggi i treni si piantano come i PC. È il progresso, darling.
È passata un’ora. Il mio treno originario, quello delle 12.15, ci sfreccia accanto con un discreto ritardo causato dalla nostra presenza sul binario ovest. Stanno usando il binario est a senso unico alternato. I treni passano comunque, e in entrambe le direzioni. Non siamo dunque nemmeno autorizzati a sperare che rappresentiamo un ostacolo da rimuovere. Intuisco, e me lo conferma il capotreno, che siamo perciò diventati l’ultima delle priorità di Trenitalia. Devono salvare il salvabile, e noi passeggeri del Frecciargento delle 11.45 non siamo più salvabili. Che importa se rimaniamo imprigionati per una, due, magari tre ore? Avremo comunque diritto al rimborso integrale della tariffa. 
Un assistente Trenitalia scende e apre manualmente tutte le porte del lato parietale della galleria. Quando arriva a quella della mia carrozza, mi sorride, perché sa che ha fatto la sola cosa giusta da fare. Anche se è proibita. Finalmente entra un po’ d’aria.
Bastano pochi minuti e la gente, esasperata, scende. Fumatori in testa, compreso il sottoscritto. Metà popolazione del treno è ora brulicante sulle mattonelle del camminamento d’emergenza, le quali, osservo, non sono nemmeno incollate: alla faccia della sicurezza, quando ci passi sopra oscillano verso la massicciata. E così, la sgradevole eco di un coro di flip-flop prende a propagarsi in galleria. Si fuma, ci si agita, si cammina su e giù, si fa insomma un po’ di sano salotto in galleria TAV, godendo al passaggio dei convogli che spostano l’aria fresca del tunnel. Vroom!
Flash che scattano. Per una denuncia, mi auguro. Alcuni telefoni funzionano, altri no. Ma la galleria non era coperta dalla rete?
Flip-flop.
E intanto, a bordo, il bar continua a vendere. Anche l’acqua. Nessuno ci dà qualcosa gratis. Nemmeno agli anziani o ai bambini.
Flip-flop. Vroom!
È passata un’ora e un quarto. Il personale continua a non dirci nulla. Come biasimarli? Nemmeno a loro è stato detto nulla. Nei loro occhi leggo la paura del linciaggio, ma gli è andata bene: sebbene a stento, la massa conserva la calma, forse perché la metà dei passeggeri sono stranieri in vacanza. Non a caso sono loro i più tranquilli. Per tedeschi, coreani, americani, questa è un’eccezione, mentre per noi è l’italica norma (N.B. fate pure una ricerca in Google digitando Frecciargento, blocco e galleria).
Estorco al mio amico capotreno l’informazione che una motrice a gasolio arriverà da Firenze e ci trainerà nella stazione periferica di Rifredi, dove un treno Frecciarossa ci attende. Ma affinché percorra i dieci chilometri di tunnel ci vorrà un’altra ora, e poi ancora mezz’ora per agganciare il nostro carro bestiame.
E finalmente, fischio triplo. Come in stazione. Tutti a bordo, stremati. Spengo l’ultima sigaretta del pacchetto sul selciato di una delle gallerie ferroviarie più lunghe d’Europa.
Partiamo a velocità minima, e usciti dalla galleria parte l’applauso liberatorio.
-Applausi? Calci in culo.- bofonchia legittimamente un romano.
Ma non è finita: ancora mezz’ora sotto al sole, porte chiuse, aria assente, per entrare a Rifredi.
Trasbordo, altra mezz’ora di attesa. Poi si riparte per Bologna, Padova e Venezia.
Quando rientriamo nel tunnel tremiamo. Ma questa freccia sfreccia. Con appena tre ore e mezza di ritardo.
Oggi ho davvero fumato troppo. Ma mi perdono.

martedì 17 maggio 2011

Il Mac, il caposcalo e un volo per Roma. Una storia vera.


La mattina del 16 maggio tento inutilmente di effettuare il web check-in nell’immancabilmente malfunzionante sito internet di Alitalia, che così bene rappresenta tanto l’omonima azienda di trasporto aereo di bandiera quanto il paese che ha siffatta bandiera, per il mio volo di rientro da Torino a Roma. Mi rassegno a perdere tempo in aeroporto e programmo con opportuno anticipo il mio arrivo a Caselle. Ivi giunto, prendo atto che lo stesso problema sussiste con il terminale di self check-in e mi preparo ad affrontare il personale in un vis a vis diretto che tendo in genere ad evitare.
Preannuncio al lettore che quanto segue andrà a corroborare ulteriormente la già ben nutrita fondatezza di questa mia tendenza.
-Buongiorno. Non riesco a effettuare il check-in per Roma presso il terminale automatico. Mi chiamo Troccoli e ho il volo delle 17.15 per Roma.
-Buongiorno.- (faccia stanca, di chi sta lì per puro caso) -Mi dà un documento, prego?
-Ecco a lei.
Tac tac tac.
-Ma lei ha volato l’andata da Roma?
Tac tac tac.
-Certo. Se sono qui…
-Potrebbe essere venuto in altro modo.
Tac tac tac.
-Mi scusi, qual è il problema?
Tac tac tac.
-Il problema è che nel sistema non risulta che lei abbia volato l’andata.
-E allora?
-E allora non posso emettere la carta d’imbarco per il ritorno.
-Guardi, ho volato l’andata il 13 maggio alle 13.25 da Roma a Torino. La prego, controlli.
Tac tac tac.
-Non avrebbe la carta d’imbarco per l’andata?
-L’ho gettata via, ovviamente.
-Aspetti. (espressione sempre più stanca e annoiata, solleva la cornetta telefonica come se pesasse un quintale)
-Pronto? Ciao, ho qui un passeggero dell’AZ per Roma delle cinque e dieci che non riesco a imbarcare (…) eh, mi dice di no, che non l’ha volato (…) no lui sostiene che ha volato l’andata (…) no, non l’ha, l’ha buttata (espressione di incomprensibile biasimo al mio indirizzo).
-Lei proprio non l’ha la carta d’imbarco, eh?
-Le ho detto che l’ho gettata via. Perché avrei dovuto tenerla?
-L’ha buttata (di nuovo al telefono), te l’ho detto (….) sì, va bene.
-Senta, lei deve dimostrare di aver volato l’andata…
-Ero al posto 6F di un Airbus A321, poltrone grigie con slide per carta di credito atrofizzati sugli schienali, assenza dei vani centrali per l’uscita d’emergenza. Probabilmente un modello di quelli che avete comprato da AirOne e ripitturato solo all'esterno. Le basta?
-Pronto? Dice che era al 6F di un trevventuno (…) eh, lo so.
-Magari ha la carta d’imbarco nel PC?
-E se non avessi il PC? Assurdo.- replico. -Alitalia… sempre peggio, eh? Spero di averla conservata sul desktop prima di stamparla.
Mi chino, estraggo il Mac, che per fortuna ho portato con me, avvio il sistema e visualizzo il pdf della carta d’imbarco, che sempre per fortuna ho conservato in una cartella apposita.
Il Mac troneggia sul desk del check-in in una situazione paradossale e grottesca. L’addetta guarda allibita, come se solo allora capisse che a mentire non sono io.
-Pronto? L’ha nel PC, qui davanti a me (…) sì, aspetta…
-Senta, si può collegare e inviarla per e-mail al caposcalo?
Mi monta la rabbia.
-No, non lo farò. Mi dica invece dove trovo il caposcalo. Ci vado personalmente.- digrigno.
-Vede la macchina bianca? (un modello di auto in esposizione promozionale). Prenda la scala là dietro e salga su, terza porta a sinistra.
Trovo la porta, che era la seconda a destra, con un po’ di difficoltà. Irrompo nello stanzino in cui siede un uomo alto, brizzolato e con cute imbrunita da settimane di lampade. Mi viene spontaneo il pensiero che quelle lampade devono aver rappresentato la sua sola preoccupazione degli ultimi tempi. Il Mac aperto fra mano e la spalla, due borse nell’altra mano, un golfino alla vita e la giacca sull'altra spalla. Sono sudato, a Torino fa molto caldo. E sono anche piuttosto incazzato.
-Questa cosa è assurda.
Il caposcala mi guarda come se non sapesse di cosa parlo. In effetti non lo sa.
-Allora? Sono quello che deve dimostrare di aver volato l’andata facendovi vedere la carta d’imbarco nel portatile!
-Ehm, penso che siano gli operativi a seguire la cosa. Venga.
Si alza.
-Guardi, lei è il caposcalo?
-Sì…
-Ecco, allora andiamo dagli operativi, ma questa situazione è folle, se ne rende conto?
Andiamo alla porta successiva, dove conto sei o sette, fra donne e uomini impiegati in quella che suppongo sia la loro occupazione preferita: chiacchierano allegramente.
Una donna giovane si alza e mi viene incontro. La presenza del caposcalo in persona l’ha intimidita e forse sa di aver combinato un bel casino.
-Il signor Troccoli? Sì, è tutto a posto! -sfodera un sorriso che da bambino chiamavamo “Mentadent”. il dentifricio con i coloranti fasulli.
-Tutto a posto? - la mia voce rasenta il livello del grido. -Tutto a posto? IO devo dimostrare a VOI che ho volato l’andata?
Il caposcalo è a questo punto incuriosito (ma non troppo sorpreso) e rivolgendosi alla sottoposta domanda: -Ma cosa è successo?
-Ecco, non risulta che il signor Troccoli abbia volato l’andata da Roma, per cui avevamo difficoltà a emettere la carta d’imbarco per il ritorno. Gliel'ho chiesta per posta elettronica per avere un giustificativo per l'emissione.
E rivolgendosi verso di me continua: -Ma vada pure, la sua carta d’imbarco è stata comunque già emessa. (sorriso ebefrenico da marketing di quarta generazione, falso come una banconota da tre euro).
-No. La mia carta d’imbarco VERRÀ emessa solo dopo che lei avrà autorizzato l’emissione. Così hanno detto sotto. Il che è semplicemente folle. Voi avete un database e tutto il resto, e un passeggero dovrebbe preoccuparsi di conservare la documentazione del volo precedente. La vostra compagnia è sempre stata e rimane un fallimento cronico. Meno male che sono arrivato in aeroporto in anticipo.
-Avrei comunque risolto il suo problema. Vada pure, la sua carta è pronta giù. Arrivederci.
-Spero di no.- è la mia ultima sentenza al suo indirizzo, che si perde mentre già mi allontano nel corridoio di un ufficio dove c’è tanta gente che fa finta di lavorare, e per una compagnia che è stata salvata, come al solito, con i soldi di noi che lavoriamo.
Quando torno dalla prima impiegata, apprendo che non lavora per Alitalia ma per la società di gestione dell’Aeroporto di Torino.
-Meglio per lei.- le dico.
E meno male che avevano creato la “Good Company”.
ALITALIA = Always Late In Take-off, Always Late In Arrival.
È proprio vero. Sempre in ritardo.
Non solo con i voli.